Giulia raggiunse Sestriere in un pomeriggio gelido di gennaio. L’aria limpida e pungente le arrossava le guance mentre parcheggiava l’auto nella piazza principale del paese. Le cime delle montagne brillavano sotto il sole invernale, e un sottile strato di neve fresca ricopriva i tetti delle case come una coperta morbida. Si avviò con passo stanco verso il suo appartamento, un piccolo bilocale al terzo piano di un edificio moderno vicino alle piste.
Entrando, fu colpita dal calore accogliente della stanza. Le pareti erano di un bianco brillante, i mobili in legno chiaro e le finestre panoramiche offrivano una vista spettacolare sui pendii innevati. Lasciò cadere la valigia accanto al divano e si avvicinò alla finestra. Osservò le piste, dove sciatori esperti sfrecciavano agilmente e principianti esitanti si muovevano a tentoni. In lontananza, un piccolo rifugio di legno si distingueva tra gli alberi, il fumo del camino che si alzava lento verso il cielo terso.
Ma non era lì per sciare o godersi il panorama. Era fuggita da Torino per cercare un po’ di pace, sperando che la montagna potesse lenire quel peso opprimente che la soffocava da mesi. Gli attacchi di panico erano iniziati all’improvviso, come fulmini a ciel sereno. Ricordava perfettamente il primo: una sera d’estate, mentre era in un ristorante con amici, il cuore aveva iniziato a batterle forte, un senso di vertigine l’aveva travolta, e un terrore inspiegabile l’aveva paralizzata. Pensava di avere un infarto. Il pronto soccorso le aveva confermato che fisicamente era sana, ma da allora gli attacchi si erano ripetuti, sempre più frequenti e devastanti.
Quella notte, nella quiete del suo appartamento di montagna, il panico non tardò a farsi sentire. Si svegliò di soprassalto, il cuore che martellava nel petto, il respiro corto, le mani sudate. Il mondo sembrava restringersi, come se le pareti stessero per schiacciarla. Sentiva il peso del terrore che cresceva, e l’idea di morire lì, da sola, si fece strada nella sua mente. Cercò di calmarsi, ma più provava a respirare profondamente, più il respiro sembrava sfuggirle. Dopo interminabili minuti, il corpo si calmò, ma la mente rimase intrappolata nel ricordo dell’episodio, spaventata dall’idea che potesse accadere di nuovo.
La mattina seguente, con gli occhi gonfi per la stanchezza, decise di uscire per schiarirsi le idee. Camminò lungo il corso principale di Sestriere, passando davanti ai negozi di articoli sportivi e alle caffetterie che servivano cioccolate calde e bombardini. Arrivò infine al limitare del bosco, dove una panchina di legno era posizionata sotto un grande pino. Su quella panchina sedeva un uomo anziano, avvolto in un cappotto pesante e con un bastone appoggiato accanto.
«Bella mattina, vero?» disse l’uomo, alzando lo sguardo dal libro che stava leggendo.
Giulia esitò, poi rispose con un sorriso debole. «Sì, davvero bella.»
L’uomo chiuse il libro e lo posò sulle ginocchia. «Io sono Carlo. Vieni qui spesso?»
«No, è la prima volta,» disse Giulia, sedendosi accanto a lui. Sentiva il bisogno di parlare, di sfogarsi, e quell’uomo dallo sguardo gentile sembrava un buon ascoltatore. «Sono qui per cercare un po’ di pace. Da mesi soffro di attacchi di panico.»
Carlo la osservò con attenzione, senza fretta. «Ti capisco. Anche se può sembrare spaventoso, il panico non è pericoloso. È solo il tuo corpo che reagisce a qualcosa che interpreta come una minaccia.»
Giulia sospirò. «Lo so, me l’ha detto anche il mio psicologo, ma quando succede, sembra di morire davvero.»
Carlo annuì. «È proprio questa la trappola. Il panico nasce da una serie di interpretazioni catastrofiche. Ad esempio, senti il cuore battere più forte e pensi subito: Sto avendo un infarto. Ma in realtà, il tuo corpo sta solo reagendo a un pensiero, non a un pericolo reale. Questo innesca un circolo vizioso: più ti spaventi, più i sintomi aumentano.»
Le parole di Carlo avevano un tono rassicurante, come se spiegassero qualcosa di familiare. «Come si interrompe questo circolo?» chiese Giulia.
Carlo sorrise. «Accettando il panico, non cercando di combatterlo. Più lo combatti, più lui si rafforza. Devi imparare a osservarlo senza giudizio, come se stessi guardando una tempesta dalla finestra, sapendo che prima o poi passerà.»
Nei giorni successivi, Giulia e Carlo si incontrarono spesso. Camminavano insieme lungo i sentieri innevati, e Carlo continuava a insegnarle tecniche e strategie per affrontare il panico. «Il respiro è il tuo migliore alleato,» le disse un pomeriggio. «Quando senti arrivare il panico, prova questa tecnica: inspira lentamente contando fino a quattro, trattieni il respiro per due secondi, poi espira lentamente contando fino a otto. Questo manda al cervello il segnale che va tutto bene.»
Durante una delle loro passeggiate, Carlo le spiegò più in dettaglio il meccanismo del panico. «È come un falso allarme antincendio. Il tuo sistema nervoso autonomo si attiva per proteggerti da un pericolo che non esiste. Il cuore batte più forte per prepararti a scappare o a combattere, il respiro si fa rapido per fornire ossigeno ai muscoli, e il sangue viene dirottato dai visceri ai muscoli, causando quella sensazione di stomaco vuoto o nausea. Sono reazioni naturali, ma il problema è che il tuo cervello le interpreta come segni di un disastro imminente.»
Giulia iniziò a mettere in pratica gli insegnamenti di Carlo. Una sera, mentre stava leggendo sul divano, sentì il panico avvicinarsi. Il cuore iniziò a battere più forte, il respiro si fece affannoso, ma questa volta non fuggì. Chiuse gli occhi, iniziò a respirare lentamente e ripeté a se stessa: «Non c’è pericolo, passerà.» Sentì il terrore crescere, poi, come un’onda che si ritira, diminuire gradualmente. Quando tutto finì, si sentì esausta ma sollevata.
Il giorno della partenza, Giulia si fermò un’ultima volta sulla panchina sotto il pino. Carlo era lì, con il suo libro in mano. «Grazie,» disse lei. «Non ho più paura del panico. So che può tornare, ma ora so anche che non mi farà del male.»
Carlo annuì, con un sorriso leggero. «Ricorda: il panico è solo un’ombra. E tu hai imparato a camminare nella luce.»
Giulia tornò a Torino con una nuova consapevolezza. Aveva scoperto che non era il panico a tenerla prigioniera, ma la sua paura di affrontarlo. Ogni volta che chiudeva gli occhi e ascoltava il proprio respiro, poteva sentire il silenzio della montagna e ritrovare quella calma che aveva imparato a conoscere al Sestriere.