Oggi, durante l’incontro, con Sara abbiamo parlato di pensieri intrusivi.
Li descrive come “ondate improvvise”, immagini o frasi che sembrano comparire senza preavviso, e che spesso la colgono nel mezzo di attività quotidiane.
Non sono pensieri che vuole, anzi, spesso le sembrano lontani dalla persona che sente di essere. Ma proprio per questo la spaventano. “E se volessero dire qualcosa di brutto su di me?”, mi chiede.
Mi prendo qualche istante e poi le dico:
«Hai fatto benissimo a raccontarmelo così. Il fatto che tu ti senta a disagio rispetto a quei pensieri, che tu li riconosca come disturbanti e non voluti, è un elemento fondamentale. Significa che non definiscono chi sei, ma che fanno parte di un’attività mentale che, in certi momenti, può diventare particolarmente invadente.»
Sara annuisce.
Le chiedo se ha mai provato a rispondere a questi pensieri. «Sì», mi dice, «ma spesso non funziona. È come se li alimentassi, invece di farli andare via.»
Qui introduco un primo passaggio chiave:
«Spesso proviamo a cacciare via i pensieri intrusivi come se fossero ospiti indesiderati. Ma più li spingiamo fuori, più sembrano voler tornare. C’è un’immagine che utilizzo spesso: è come cercare di appiattire l’acqua di un lago spingendo le mani sulla superficie. Non otteniamo calma, ma onde. In terapia ci psicologica, il lavoro che facciamo non è quello di eliminare questi pensieri, ma di cambiare la relazione che abbiamo con loro.»
Le propongo un piccolo esercizio: chiudere gli occhi e immaginare di vedere quei pensieri come delle nuvole nel cielo. Nuvole che passano. Alcune più grigie, altre veloci, altre lente. Non dobbiamo rincorrerle né giudicarle. Possiamo osservarle.
Dopo qualche minuto, Sara riapre gli occhi.
«È difficile, ma è diverso. Non li combattevo.»
Proseguo:
«Quello che stai facendo, in questo momento, è un piccolo passo verso la flessibilità psicologica. Non stai più reagendo automaticamente. Stai osservando. Questo è un punto fondamentale della terapia: riconoscere che i pensieri non sono comandi, né verità assolute. Sono eventi mentali. Possono esserci, ma non devono governare ciò che scegli di fare.»
Le chiedo:
«Se questi pensieri non ti trattenessero, se li potessi accogliere senza paura, cosa faresti di importante questa settimana?»
Lei ci pensa un momento, poi risponde:
«Andrei a quella cena dove ho paura che mi vengano in mente proprio lì.»
«E se succedesse?» chiedo.
«Potrei ricordarmi che sono pensieri, non segnali di pericolo. E potrei restare.»
In quel momento noto qualcosa cambiare nel tono della voce. Più determinazione, più contatto con ciò che davvero conta. La direzione è questa: non fuggire da ciò che fa paura, ma imparare a stare, un po’ alla volta, in presenza del disagio. Perché solo così si ricomincia a vivere con più libertà.
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