venerdì 20 dicembre 2024

Natale a Ceresole






Marie, una biologa di trent’anni originaria di Genova, non avrebbe mai immaginato di trascorrere un anno intero immersa nelle montagne piemontesi del Parco Nazionale del Gran Paradiso. Abituata al mare, alle onde che si infrangono contro i moli di Genova e alla vivacità della città, il trasferimento a Ceresole Reale per studiare la flora del parco le sembrava un’avventura eccitante ma difficile. Quando accettò l’incarico di ricerca, non mancò di organizzare il suo nuovo alloggio per sentirsi il più possibile a casa.


Marie aveva deciso di vivere in una piccola casa ai margini del paese, con una vista mozzafiato sul lago di Ceresole. La casa era piccola ma incredibilmente accogliente, costruita in legno chiaro e pietra locale. Un grande camino dominava il soggiorno, dove Marie aveva sistemato i suoi libri di botanica, il computer per analizzare i dati raccolti e una TV con un buon collegamento Wi-Fi per le sue serate solitarie. Aveva voluto installare DAZN per seguire, anche da lontano, la sua squadra del cuore, la Sampdoria. Sopra la TV, aveva appeso una piccola sciarpa blucerchiata, un simbolo della sua Genova e di ciò che rappresentava per lei: radici, identità e passione.


Un inizio difficile


Ceresole Reale, in inverno, sembrava uscita da una cartolina. Il lago era ghiacciato e la neve copriva ogni cosa, rendendo le strade quasi silenziose e ovattate. Il piccolo borgo era circondato da montagne maestose, e il cielo, spesso grigio, sembrava avvolgere tutto in un abbraccio freddo e distante.


Marie lavorava ogni giorno, raccogliendo campioni di muschi, licheni e piante alpine che resistevano alle rigide temperature. Era affascinata dalla resilienza di queste forme di vita, ma non poteva fare a meno di sentirsi fragile e isolata. Le sue giornate erano piene di lavoro, ma le serate trascorse davanti al camino erano dominate da un senso di vuoto.


Il rifugio Savoia


Un pomeriggio, mentre esplorava i dintorni del Colle del Nivolet, decise di fermarsi al Rifugio Savoia, un luogo accogliente nonostante la neve che circondava ogni angolo. Era una struttura storica, con grandi finestre che offrivano una vista mozzafiato sulle montagne circostanti. Il rifugio era gestito da una piccola famiglia che serviva piatti caldi e vin brulé ai pochi viaggiatori che si avventuravano lì in inverno.


Fu in quel rifugio che incontrò Luca, un ranger del Parco Nazionale. Luca aveva notato subito il suo sguardo pensieroso e si avvicinò con discrezione. “Non sembri del tutto a tuo agio qui,” disse, con un tono gentile.


Marie, che raramente parlava apertamente dei suoi sentimenti, si ritrovò a confidarsi. “Mi sento fuori posto. Ho sempre amato la scienza e il mio lavoro, ma qui, lontano da tutto e da tutti, non so più chi sono. Mi manca casa, mi manca il mare… Non so se ho fatto la scelta giusta.”


Luca le sorrise. “Sai,” disse, “le montagne insegnano a lasciar andare. Non puoi controllare tutto: il tempo, la neve, il vento. Puoi solo accettare ciò che c’è e imparare a crescere intorno a esso, come fanno le piante che studi.”


Lezioni dalla montagna


Nei giorni successivi, Luca si offrì di accompagnarla in alcune delle sue esplorazioni nel parco. Non solo le mostrò luoghi nascosti e specie rare, ma le parlò anche della resilienza della natura. “Guarda gli alberi,” disse un giorno. “Non cercano di combattere il vento o la neve. Si piegano, si adattano, ma continuano a crescere. Non resistono, accettano.”


Quelle parole rimasero con Marie. Cominciò a riflettere su quanto fosse difficile, ma necessario, smettere di lottare contro le sue emozioni. Si rese conto che aveva passato mesi a cercare di respingere la solitudine, il freddo e la nostalgia, senza mai fare spazio a ciò che sentiva realmente.


Un esercizio per ritrovare il controllo


Una sera, seduta davanti al camino, provò un esercizio che Luca le aveva suggerito. Chiuse gli occhi e immaginò i suoi pensieri come nuvole che passavano nel cielo sopra le montagne. La nostalgia per Genova, la paura di non essere abbastanza, il desiderio di scappare via: ogni pensiero scorreva, senza che lei cercasse di fermarlo.


Pian piano, Marie iniziò a sentirsi più leggera. Non perché i pensieri fossero scomparsi, ma perché aveva smesso di combatterli. Li lasciava essere, come nuvole nel cielo, senza identificarcisi completamente.


Scoprire i propri valori


Un giorno, mentre camminava lungo il lago ghiacciato, Marie si chiese: “Cosa conta davvero per me?” Realizzò che il suo amore per la natura, per la scienza, e per ciò che rappresentavano le montagne era ancora vivo. Anche lontano dal mare, poteva trovare un senso di appartenenza. Non doveva scegliere tra passato e presente: poteva portare con sé ciò che era importante e integrarlo nella sua nuova vita.


Un Natale a Ceresole


A Natale, Marie fu invitata alla piccola celebrazione del paese. La chiesa, decorata con semplici luminarie e circondata dalla neve, era colma di abitanti che cantavano canti tradizionali. Dopo la messa, tutti si riunirono nella piazza principale, accanto a un grande falò.


Lì ritrovò Luca e altri abitanti che l’avevano accolta con calore. Mentre sorseggiava un bicchiere di vin brulé, guardò il cielo limpido sopra le Alpi e si sentì, per la prima volta, parte di quel luogo.


“Non devo aspettare la primavera per vivere,” pensò. “Posso fiorire anche ora, nel mezzo dell’inverno.”


Conclusione


Quell’anno a Ceresole Reale, Marie imparò a vivere nel presente, accettando le sue emozioni e concentrandosi su ciò che davvero contava per lei. Era il Natale più autentico della sua vita: un momento di connessione con la natura, con gli altri e, soprattutto, con sé stessa.


venerdì 15 novembre 2024

Teresa






L’ansia spesso ci appare come un ostacolo insormontabile, un segnale che qualcosa di terribile sta per accadere. 

Ci immobilizza, ci fa perdere lucidità e, a volte, ci porta a vedere il rischio in ogni passo. In terapia, si lavora per affrontare l’ansia in modo pratico: non cercando di eliminarla, ma imparando a gestirla e a conviverci.

“Theresa cade salendo le scale, Theresa cade scendendo le scale”.

Gli errori e le cadute nella vita sono inevitabili.

Proviamo ad utilizzare questo mantra per iniziare a gestire l’ansia. 

La storia di Marco

Un paziente alle prese con l’ansia paralizzante

Marco (nome di fantasia), 32 anni, si siede sulla poltrona per la sua quarta seduta. È visibilmente teso: le mani si stringono l’una sull’altra, il respiro è corto, e gli occhi vagano per lo studio.

Guarda i quadri dello studio.

“Dottore, non so come fare. Ho questa riunione al lavoro la prossima settimana e mi sento già sopraffatto. Ogni volta che penso a quello che potrebbe andare storto, mi blocco. Mi sembra di camminare su una fune, con il rischio di cadere da un momento all’altro.”

Lo ascolto. 

So che Marco vive l’ansia come un costante bisogno di controllo: il timore di sbagliare e il desiderio di prevedere ogni possibile problema lo portano a uno stato di perenne agitazione.

“Capisco quanto sia difficile per te questo momento. Posso proporti qualcosa di diverso oggi?” 

“Vorrei raccontarti una breve storia che potrebbe aiutarti a vedere le cose da una prospettiva diversa.”

C’era una volta Theresa. Ogni giorno saliva le scale di casa sua, e ogni giorno scendeva. 

Ma un giorno, salendo, Theresa inciampò e cadde.

Passarono dei giorni, e Theresa, riprendendo la routine, cadde nuovamente mentre scendeva. 

Theresa cade salendo le scale, Theresa cade scendendo le scale.”

Marco sorride leggermente, ma rimane confuso. “Va bene… e quindi?” 

Rispondo 

Questa storia ci insegna è che non importa se stiamo salendo o scendendo, il rischio di cadere c’è sempre. 

Ma cadere non è la fine: è solo una parte del percorso. 

Marco riflette. 

La semplicità della storia inizia a mettere in dubbio la rigidità dei tuoi pensieri.

“Ma io non voglio cadere,” risponde Marco, “è questo che mi terrorizza.”

“Nessuno vuole cadere. Ma la vita non è fatta solo di passi sicuri. A volte inciampiamo, e questo non significa che abbiamo fallito.”

“Significa solo che stiamo camminando.”


sabato 14 settembre 2024

Riflessioni Post-Seduta






Nel mondo della terapia psicologica, il successo del percorso dipende da una combinazione di fattori, tra cui l'efficacia della relazione terapeutica, la capacità di affrontare le difficoltà emotive e, soprattutto, la motivazione del paziente al cambiamento. Un aspetto cruciale, ma spesso trascurato, è ciò che avviene tra le sedute, quando il paziente ha il compito di riflettere e mettere in pratica quanto emerso durante la terapia. È proprio in questo contesto che ho sviluppato una pratica clinica che si è rivelata estremamente efficace: le riflessioni post-seduta.

Questo metodo, che ho ideato personalmente dopo aver osservato risultati più che soddisfacenti nei miei pazienti, consiste nell'invio di un resoconto approfondito della seduta, contenente pensieri, riflessioni e collegamenti tra i temi trattati. È uno strumento che non solo mantiene viva l'attenzione sul percorso terapeutico, ma favorisce una profonda rielaborazione dei contenuti emersi e sostiene la motivazione al cambiamento. In questo articolo esplorerò in dettaglio le ragioni per cui questo strumento si è dimostrato tanto efficace, e come può essere integrato con successo nel lavoro clinico.

Cos'è la Riflessione Post-Seduta?

La riflessione post-seduta è un feedback strutturato che invio al paziente dopo ogni incontro. A differenza di un semplice riassunto, si tratta di una rielaborazione approfondita della seduta, in cui analizzo attentamente quanto emerso, identifico connessioni tra i temi trattati e fornisco spunti per ulteriori riflessioni. Il contenuto del rimando è adattato alle esigenze individuali del paziente e viene studiato per favorire la continuità del lavoro terapeutico.

Ad esempio, se durante la seduta un paziente ha manifestato difficoltà nel gestire l'ansia legata a una situazione specifica, nel rimando post-seduta non mi limito a ripetere quanto detto, ma invio riflessioni su come l'ansia si collega ad altri aspetti della vita del paziente, suggerendo strategie concrete per affrontarla. Questo strumento permette al paziente di riflettere con maggiore calma e chiarezza su quanto emerso, mantenendo la connessione emotiva e cognitiva con il lavoro terapeutico anche al di fuori della seduta.

Perché Ho Creato Questo Strumento?

L'idea di implementare le riflessioni post-seduta è nata da un'esigenza concreta che ho riscontrato nel mio lavoro clinico. Mi sono accorto che molti pazienti, soprattutto quelli che affrontavano tematiche complesse come l'ansia cronica, la depressione o i disturbi emotivi, avevano difficoltà a mantenere la riflessione sui temi trattati nel corso delle sedute. Spesso si perdevano nei giorni successivi, rischiando di perdere il focus o di non cogliere le connessioni tra le tematiche trattate e la loro vita quotidiana.

Per rispondere a questa esigenza, ho cominciato a sperimentare l'invio di resoconti post-seduta, notando subito un impatto positivo. I pazienti non solo si sentivano più supportati e coinvolti, ma erano anche in grado di mantenere alta la motivazione e di lavorare attivamente sui temi emersi. La continuità del pensiero terapeutico e la chiarezza sui passi successivi del percorso hanno prodotto risultati che si sono rivelati costanti e duraturi nel tempo.

Riflessioni Post-Seduta e Motivazione al Cambiamento

Un elemento centrale nel successo di questo approccio è il suo impatto sulla motivazione al cambiamento, un tema esplorato da David H. Barlow nel suo Protocollo Unificato per il Trattamento Transdiagnostico dei Disturbi Emotivi. Barlow sottolinea come il mantenimento della motivazione sia una sfida cruciale, soprattutto nel trattamento di disturbi emotivi come ansia, depressione o disturbi dell'umore, dove i progressi possono sembrare lenti e le ricadute frequenti.

Le riflessioni post-seduta si sono rivelate uno strumento efficace per sostenere la motivazione proprio in questi momenti critici. Ogni resoconto rappresenta una sorta di "rinnovo" dell'impegno terapeutico, un promemoria concreto dei progressi fatti e delle aree su cui lavorare. Questo rinforzo costante aiuta i pazienti a non perdersi nei momenti di difficoltà, ricordando loro il valore del lavoro intrapreso e offrendo strategie concrete per continuare il cambiamento.

Inoltre, il rimando permette di fare una "revisione" dei comportamenti e delle emozioni del paziente, evidenziando come anche piccoli passi avanti abbiano un grande valore nel processo di cambiamento. Questo focus sui progressi, per quanto minimi, stimola la percezione di autoefficacia, un fattore cruciale per il mantenimento della motivazione a lungo termine.

Rafforzare il Focus sul Percorso Terapeutico

Oltre a mantenere alta la motivazione, le riflessioni post-seduta svolgono un'altra funzione essenziale: aiutano a mantenere il focus sugli obiettivi terapeutici. Nei percorsi di terapia, è comune che le tematiche affrontate siano molteplici e complesse, e che il paziente, tra una seduta e l’altra, possa sentirsi confuso o perdere il filo del discorso.

Le riflessioni inviate al termine di ogni incontro fungono da "ancora" che tiene il paziente legato agli obiettivi principali del trattamento. Ogni riflessione post-seduta viene scritta con l'intento di riorganizzare e chiarire i punti chiave affrontati, collegando le diverse tematiche tra loro e fornendo indicazioni su come continuare a lavorare sui temi principali. In questo modo, il paziente non solo si sente accompagnato nel processo, ma ha anche una direzione chiara da seguire tra le sedute, riducendo il rischio di dispersione o confusione.

Ad esempio, se durante una seduta emerge un tema legato all’autostima e alle relazioni interpersonali, il resoconto post-seduta aiuta a stabilire connessioni tra questi aspetti e gli obiettivi terapeutici più ampi. Questo permette al paziente di rimanere focalizzato sulle priorità del trattamento, evitando di essere sopraffatto da emozioni o pensieri secondari.

Risultati Osservati

L'adozione di questo approccio ha prodotto risultati molto soddisfacenti sia a livello di coinvolgimento del paziente, sia in termini di efficacia terapeutica complessiva. I pazienti che hanno ricevuto le riflessioni post-seduta hanno mostrato un maggiore grado di consapevolezza rispetto al loro percorso, una maggiore capacità di riflessione autonoma e, soprattutto, una continuità nel processo terapeutico che ha portato a progressi più stabili.

Uno degli aspetti che ha particolarmente sorpreso è stato il grado di auto-riflessione sviluppato dai pazienti. Le riflessioni post-seduta sembrano stimolare un pensiero critico che permette al paziente di auto-monitorarsi con più efficacia, diventando più consapevole delle proprie dinamiche interne anche nei momenti lontani dalla terapia. Questo ha facilitato un passaggio da una dipendenza dal terapeuta a una maggiore autonomia nel proprio processo di cambiamento, contribuendo a un miglioramento del senso di autoefficacia.

Sfide e Precauzioni

Nonostante i risultati positivi, l'uso delle riflessioni post-seduta richiede alcune precauzioni. È importante che i resoconti siano sempre mirati e chiari, per evitare che il paziente si senta sopraffatto da troppe informazioni. Il linguaggio utilizzato deve essere accessibile e in sintonia con le capacità di comprensione del paziente, evitando tecnicismi eccessivi o riflessioni troppo complesse.

Inoltre, è essenziale che il rimando sia percepito dal paziente come un supporto, e non come un compito obbligatorio o un'ulteriore pressione. L'obiettivo è che il paziente si senta accompagnato e sostenuto nel processo di riflessione, senza sentirsi giudicato o in ansia per dover rispondere alle aspettative del terapeuta.

Conclusione

Le riflessioni post-seduta rappresentano uno strumento potente per sostenere la motivazione e mantenere il focus nel percorso terapeutico. Grazie a questo metodo, i pazienti possono continuare a riflettere e lavorare su se stessi anche al di fuori delle sedute, favorendo una maggiore continuità e profondità nel processo di cambiamento. I risultati più che soddisfacenti osservati nei miei pazienti confermano l'efficacia di questo approccio, che si sta dimostrando una risorsa preziosa per promuovere il benessere psicologico in modo personalizzato e costante


venerdì 6 settembre 2024

La debolezza del pensare positivo






Negli ultimi anni, la cultura del "pensiero positivo" ha guadagnato una vasta popolarità, promossa da libri di auto-aiuto, corsi di crescita personale e numerosi influencer. L’idea che basti "pensare positivo" per risolvere ogni difficoltà personale e psicologica è diventata quasi una verità indiscussa in molte correnti del pensiero popolare. Tuttavia, la **Terapia dell’Accettazione e dell’Impegno (ACT)**, una delle terapie più innovative nel campo della psicologia cognitivo-comportamentale, critica in modo diretto questo approccio semplicistico. Il pensiero positivo, se preso come unica soluzione, non solo ignora la complessità delle emozioni umane, ma può anche peggiorare le sofferenze psicologiche di una persona, creando aspettative irrealistiche e innescando un ciclo di evitamento delle esperienze difficili.


Il "Pensare Positivo" e il Problema della Soppressione delle Emozioni Negative


Una delle principali critiche della **ACT** all’approccio del pensiero positivo è che spesso incoraggia le persone a sopprimere o negare le emozioni negative. La società odierna tende a dare molta enfasi all'idea di essere sempre felici, sereni e proiettati verso obiettivi positivi, ma questo messaggio può risultare controproducente.


Secondo l’ACT, tutte le emozioni, sia positive che negative, fanno parte dell’esperienza umana e hanno un ruolo importante nella nostra vita. La rabbia, la tristezza, la paura e la frustrazione non sono emozioni da eliminare o da evitare, ma segnali naturali che ci aiutano a comprendere meglio il nostro mondo interiore e a orientarci nelle nostre scelte di vita. Ignorarle o cercare di "pensare positivo" a tutti i costi può portare a una soppressione delle emozioni che, a lungo termine, amplifica il disagio. 


La ricerca in psicologia mostra chiaramente che cercare di sopprimere pensieri e sentimenti negativi tende a farli ritornare con maggiore intensità. Questo fenomeno, noto come **effetto di rimbalzo** o "ironia cognitiva", implica che più cerchiamo di non pensare a qualcosa (ad esempio, alla nostra ansia), più quel pensiero ritorna. La soppressione emotiva, quindi, può innescare un ciclo di sofferenza, poiché il tentativo di evitare l'esperienza negativa finisce per amplificare l'importanza di ciò che si sta cercando di evitare.


Accettazione delle Emozioni nel Contesto dell'ACT

In contrasto con il pensiero positivo, l'ACT si basa sul concetto di **accettazione** delle emozioni. Invece di cercare di eliminare o modificare i pensieri e le emozioni negativi, l'ACT insegna a **riconoscerli**, **accettarli** e a lasciare che esistano senza che questi governino il nostro comportamento.


Un concetto centrale dell'ACT è quello della **defusione cognitiva**, che insegna a vedere i pensieri per ciò che sono: semplici eventi mentali, e non verità assolute. Ad esempio, se una persona ha il pensiero "sono un fallito", l’ACT incoraggia a riconoscere che questo è solo un pensiero, non una realtà oggettiva. Piuttosto che cercare di sostituire quel pensiero con uno positivo ("sono una persona di successo"), si lavora per accettare che tutti, in certi momenti, possano avere pensieri negativi. La chiave è riconoscerli e non far sì che controllino le nostre azioni.


L’Illusione del Controllo Totale

Il pensiero positivo spesso si basa sull’idea che abbiamo il controllo assoluto sui nostri stati mentali. Secondo questa logica, se pensi positivamente, avrai una vita positiva. Tuttavia, la realtà psicologica è ben più complessa. Molte delle nostre emozioni, reazioni e pensieri sono automatici e non sono soggetti a un controllo diretto. L’ACT riconosce questo e sottolinea che l’accettazione della realtà, anche quella che non possiamo controllare, è fondamentale per il benessere psicologico.


Il tentativo di controllare pensieri ed emozioni attraverso il pensiero positivo può condurre a frustrazione, perché ci mette davanti all’impossibilità di eliminare completamente pensieri negativi e stress. La **frustrazione** nasce dall’aspettativa irrealistica di poter essere sempre felici o sereni, mentre l’accettazione promossa dall'ACT incoraggia a vivere pienamente, anche quando ci si confronta con emozioni difficili.


Il Fraintendimento della Sofferenza Umana

Il pensiero positivo tende a presentare la sofferenza come una sorta di errore o come qualcosa che si può correggere con un cambio di mentalità. Ma la sofferenza fa parte della condizione umana, e negare questa realtà può portare a sensi di colpa e vergogna quando, nonostante tutti gli sforzi, i pensieri negativi e la sofferenza persistono. La società moderna, con l'enfasi su prestazioni, successo e felicità costante, alimenta un mito pericoloso: quello che una vita senza difficoltà è una vita "normale" e che il disagio sia un'anomalia da correggere.


L'ACT affronta questo mito in modo diretto: invece di vedere la sofferenza come un errore da correggere, incoraggia le persone a riconoscere che la sofferenza è naturale e che l’obiettivo non è eliminarla, ma imparare a viverci accanto senza esserne dominati. Accettare la sofferenza significa riconoscere che alcune parti della vita saranno sempre difficili, ma che possiamo comunque agire in modi che riflettono i nostri valori e le nostre aspirazioni.


L'Importanza dei Valori, non del Positivismo Forzato

Invece di concentrarsi sul pensiero positivo, l'ACT pone l'accento su ciò che è davvero importante per una persona: i suoi **valori**. Spesso, nel tentativo di evitare emozioni e pensieri negativi, le persone smettono di fare cose che sono in linea con i loro valori più profondi. Ad esempio, qualcuno che ha paura di fallire potrebbe evitare di perseguire obiettivi lavorativi importanti, anche se una carriera di successo è ciò che desidera veramente. L’ACT incoraggia a riconoscere le paure, accettarle e poi comunque agire in modo coerente con i propri valori.


Il pensiero positivo, d’altra parte, può promuovere un’idea irrealistica di felicità, come se bastasse “pensare” in modo giusto per ottenere ciò che si desidera. Questa visione trascura la complessità della vita e delle scelte che affrontiamo quotidianamente. La vera crescita psicologica, secondo l'ACT, avviene quando una persona è in grado di agire in modo coerente con i propri valori, anche quando questo comporta disagi e incertezze.


La Superficialità del Pensiero Positivo

In definitiva, l’idea che basti "pensare positivo" per risolvere i problemi psicologici è non solo semplicistica, ma anche potenzialmente dannosa. Essa ignora la complessità dell’esperienza umana, che include emozioni difficili e inevitabili momenti di sofferenza. La **Terapia dell’Accettazione e dell’Impegno (ACT)** propone una visione più realistica e compassionevole della sofferenza umana, promuovendo l’accettazione di tutte le emozioni e l’impegno verso una vita guidata dai propri valori, non dalla ricerca di una felicità forzata e illusoria.

venerdì 21 giugno 2024

Come un detective







Immagina di avere un pensiero che gironzola nella tua testa.


Questo pensiero ti fa sentire a volte un po’ triste e a volte un po’ preoccupato. 

A volte, questi pensieri sono come piccoli indovinelli che nascondono qualcosa di più grande e importante sotto di loro. 

Cosa puoi fare per scoprirli? 

Puoi trasformarti in un detective e andare a trovare gli indizi! 

Prendi una torcia per illuminare dove stai indagando! 

La torcia ti aiuterà a scoprire cosa c'è sotto questi pensieri, proprio come un detective che risolve un mistero.

Partenza! 

Immagina che ogni pensiero sia come una corda calata in un pozzo. 

Questa punta verso il basso, verso un pensiero più profondo. 

Continuando a seguire la corda, puoi arrivare al pensiero più importante, che potrebbe essere quello che ti fa davvero preoccupare. 

Per trovare questo pensiero però, devi farti delle domande! 

Proprio come Sherlock Holmes! 

Queste domande ti aiutano a capire meglio cosa c'è sotto il primo pensiero.

Ti faccio un esempio. 

Supponiamo che tu abbia fatto un errore nei compiti e pensi:

"Mia madre scoprirà l'errore e si arrabbierà molto con me."

Ma ecco la prima domanda: 

Se questo fosse vero, cosa significherebbe per me?

Mah.. potresti dire: “Significherebbe che mia madre potrebbe punirmi”. 

Di nuovo… Se questo fosse vero, cosa significherebbe per me?
   
Che diresti?… "Non mi farà andare in gita."

E di nuovo ancora… Se questo fosse vero, cosa significherebbe per me? 
 
Immagino diresti… “Non sono una brava figlia a scuola”.
   
E ci risiamo… Se questo fosse vero, cosa significherebbe per me?

Penso azzarderesti… “Non sono brava come mia sorella”

Come vedi, partendo dal pensiero "mia madre scoprirà l'errore e si arrabbierà molto con me", abbiamo seguito la corda nel pozzo verso il basso e abbiamo scoperto che il pensiero più profondo è "non sono brava come mia sorella”.

Questo è il pensiero che ti preoccupa realmente! 

Come un detective usando questa tecnica, puoi indagare sui tuoi pensieri e scoprire cosa ti preoccupa davvero.

Buona indagine

Il mistero della coscienza

La coscienza rappresenta uno dei più grandi misteri della mente umana perché, nonostante i progressi delle neuroscienze, non sappiamo ancora...