sabato 8 marzo 2025

La collina di Torino




Torino. 

Agosto. 

L’aria era immobile, pesante, densa di umidità. Il sole si rifletteva sui palazzi del centro come un bagliore dorato, facendo sembrare ogni superficie un fuoco liquido. Corso San Maurizio, che portava verso il precollina, era quasi deserto. Il traffico era ridotto all’essenziale: qualche autobus vuoto, qualche bicicletta solitaria, i pochi torinesi rimasti in città che si muovevano con l’andatura lenta e svogliata di chi sopravvive a una fornace a cielo aperto.


Sara camminava veloce, evitando le zone di sole e cercando con lo sguardo piccoli rifugi d’ombra tra i palazzi. Era venerdì sera, e mentre attraversava il Lungo Po, il rumore ovattato delle auto che scivolavano sul manto stradale e il brusio sommesso delle conversazioni nei dehors dei bar si mescolavano in un sottofondo che riempiva la serata estiva.


L’aria era calda, ma a tratti una brezza leggera risaliva dal fiume, portando con sé l’odore dell’acqua e del cemento surriscaldato. Il sole, ormai basso all’orizzonte, proiettava lunghe ombre sui marciapiedi, e Sara si muoveva agilmente tra i giochi di luce e ombra, con il passo sicuro di chi conosce ogni angolo della città.


Era molto carina, con un volto dai lineamenti delicati e occhi azzurri identici a quelli di sua madre, chiari e vivaci, capaci di catturare ogni dettaglio attorno a lei. Il suo fisico, invece, lo aveva preso da suo padre, alta e slanciata, con movimenti sempre fluidi e naturali.


Assomigliava molto anche a suo fratello minore, che aveva quindici anni e viveva ancora con i loro genitori. Era molto legata a lui.


Vestiva con una semplicità che non era mai banale: un jeans dal taglio perfetto, morbido e leggermente scolorito, abbinato con naturalezza a una maglia della Pepe Jeans, comoda, fresca, dal tessuto sottile che accarezzava la pelle senza aderire troppo. Ai piedi, un paio di Nike bianche che avevano visto giorni migliori. Un tempo immacolate, ora erano segnate dal tempo e dalle strade percorse, un bianco che era stato bianco, ma che continuava a portare con sé un fascino vissuto e autentico.


Ogni suo passo, ogni suo movimento, sembrava perfettamente in sintonia con l’ambiente attorno a lei, come se appartenesse a quella città, alle sue vie, ai suoi tramonti dorati.


Palazzo Nuovo, con le sue grandi vetrate annerite dal tempo e il cortile interno pieno di fogli stropicciati abbandonati sulle panchine, l’aveva accolta tutto il giorno tra i suoi corridoi asfissianti, le lezioni letargiche di fine sessione e la biblioteca dove aveva passato ore a studiare. Ma ora voleva solo tornare nella sua stanza.


Il collegio si trovava in collina, nella parte più elegante e silenziosa del precollina torinese. Era un edificio antico, costruito in pietra chiara e circondato da giardini con siepi perfettamente curate. Le stanze erano fresche, con soffitti alti e finestre che davano sulla città. Di notte, la vista era spettacolare: le luci di Torino si stendevano come una costellazione sotto di lei, e il Po sembrava una lama d’argento che tagliava la città in due.

Prese il bus 78. 

Salì e si accorse subito di una cosa: tutti, nessuno escluso, erano incollati ai loro schermi.


Un ragazzo con una camicia di lino guardava un video senza cuffie, lo sguardo spento. Una donna sulla quarantina digitava velocemente un messaggio, le unghie che tamburellavano sul vetro del telefono. Accanto a lei, un uomo con la testa china stava leggendo un articolo, mentre il riflesso azzurrognolo del display gli scoloriva il viso.


Sara si sedette e si guardò intorno. 

Nessuno parlava. 

Nessuno si guardava.


Il bus procedeva lungo corso Moncalieri, scivolando tra le luci calde dei lampioni e le ombre proiettate dagli alberi che costeggiavano il fiume. Sara, seduta accanto al finestrino, osservava il Po scorrere placido accanto a loro, le sue acque appena increspate dal vento della sera. Torino aveva un modo tutto suo di trasformarsi al tramonto, le strade assumevano una calma quasi irreale, una quiete austera che si rifletteva nelle architetture imponenti della città.


Quando il bus arrivò all’altezza del Ponte Isabella, virò a sinistra, abbandonando la strada che costeggiava il fiume per imboccare corso Fiume. Qui, la città sembrava cambiare volto. Le palazzine lasciavano spazio a ville eleganti e silenziose, immerse nel verde, con giardini nascosti dietro cancelli in ferro battuto. Le facciate delle case erano austere, alcune di un bianco luminoso che sembrava assorbire gli ultimi bagliori del giorno, altre più scure, di mattoni rossi o pietra consumata dal tempo, con finestre alte e strette che nascondevano interni antichi e insondabili.


Sara le guardava scorrere una dopo l’altra, incantata e al tempo stesso inquieta. C’era qualcosa di ipnotico in quelle ville torinesi, con i loro cortili nascosti, le scalinate in pietra consumata, le statue silenziose che sorvegliavano gli ingressi.


Quando il bus giunse in piazza Crimea, la rotonda apparve immersa in un’atmosfera quasi sospesa. I locali attorno erano chiusi per ferie, le saracinesche abbassate conferivano alla piazza un’aria più solitaria del solito. Il parco della Crimea, accanto a loro, si distendeva come una macchia d’ombra, i suoi alberi si stagliavano contro il cielo che ormai si tingeva di blu profondo.


Fu in quel momento che lo sguardo di Sara si fermò su una villa in particolare, un edificio maestoso, leggermente nascosto dietro un fitto muro di vegetazione. Aveva finestre altissime, un ingresso sovrastato da colonne eleganti e un alone di mistero che la rendeva diversa dalle altre.


Non poteva fare a meno di pensare a “Profondo Rosso”.


La scena della villa del film di Dario Argento le tornò in mente con incredibile nitidezza: l’architettura imponente, il mistero che si annidava dietro quelle finestre, l’atmosfera carica di tensione e suggestione.


Sara distolse lo sguardo, un brivido le attraversò la schiena. Forse era solo la suggestione, o forse era quell’aria di Torino, così carica di storie non raccontate. Il bus riprese a salire, lasciandosi alle spalle la piazza e dirigendosi verso la collina, verso il collegio.



Eppure, tutti erano chiusi nei loro schermi, come se il mondo reale fosse diventato superfluo.


“Possibile che nessuno parli più con chi ha accanto?” pensò Sara.


Un tempo, il tragitto in autobus era fatto di piccole interazioni: uno sguardo scambiato con uno sconosciuto, una conversazione rubata tra due amici, il brusio dei discorsi che riempiva l’aria. Ora, invece, il silenzio era assoluto.


Un silenzio innaturale.


Arrivata alla sua fermata, scese e si incamminò verso il collegio. Le scale in pietra erano fresche sotto i sandali, il profumo dei pini e delle magnolie era l’unico sollievo dalla calura soffocante.


Il collegio era imponente, una struttura del XIX secolo con alte finestre, cancelli in ferro battuto e interni di legno scuro. Sara salì le scale di marmo, sentendo il suono ovattato dei suoi passi riecheggiare nel corridoio.


Entrò nella sua stanza e si tolse le scarpe. La finestra era aperta, e la città si stendeva davanti a lei, illuminata come una mappa vivente.


Si sedette sul letto e tirò fuori il libro che aveva comprato in libreria qualche giorno prima. Ma prima di aprirlo, prese il telefono.


Lo schermo si illuminò immediatamente.


Notifiche. Messaggi. Email. Un flusso continuo di informazioni che la tirava dentro, che le impediva di fare qualsiasi altra cosa. Lo sguardo le scivolò via dal libro e finì dentro quella prigione di vetro e pixel.


Quanto tempo passò?


Quando si riscosse, erano passati quaranta minuti. Quaranta minuti rubati.


Lo lasciò cadere sul letto, quasi disgustata. “Com’è possibile che ogni volta succeda la stessa cosa?”


Si alzò e si versò un bicchiere d’acqua. Domani avrebbe studiato tutto il giorno. Solo un aperitivo con qualche amico la sera, poi di nuovo sui libri.


Ma la sua mente continuava a tornare su quell’immagine: il bus pieno di persone, tutte intrappolate dentro uno schermo.


Era come se la città avesse smesso di esistere, come se nessuno fosse più capace di guardare oltre.


E lei? Ne era davvero immune?


Spense la luce e si infilò sotto le lenzuola. Il vento leggero entrava dalla finestra, portando con sé l’odore della collina.


Ma la sua mente non smetteva di lavorare.


Qualcosa non andava. E lei aveva la sensazione che fosse solo l’inizio.


sabato 22 febbraio 2025

Le Onde e gli Specchi






Il mare di Bergeggi sembrava respirare, ritirandosi e avanzando come un cuore che batteva in sintonia con il vento. 

Le onde, specchi mobili del cielo, riflettevano mille sfumature di blu, ma nessuno degli abitanti del paese le vedeva allo stesso modo.

Marco, il pescatore più anziano del borgo, fissava l’orizzonte con occhi pesanti di pensieri. 

«Le reti torneranno vuote,» borbottava tra sé. «È sempre così quando il vento soffia da terra.»

La sua mente era una lente distorta che ingigantiva ogni fallimento e cancellava ogni successo. Non importava che solo la settimana prima avesse tirato su una delle migliori pescate dell’anno. Per lui, la sorte era segnata: tutto si sarebbe sgretolato, un passo alla volta, e lui avrebbe finito male la settimana di lavoro.

Dall’altra parte del porto, Sara camminava a passo svelto lungo la banchina, lo sguardo fisso sui ciottoli. Ogni volta che incontrava qualcuno, abbassava gli occhi, certa che dietro ogni sguardo si celasse una critica. 

«Pensano che sia ridicola,» pensava, mentre evitava il saluto di un’amica d’infanzia. «Sanno che non sono all’altezza.» La sua mente filtrava ogni esperienza attraverso il prisma della disapprovazione, e anche il più lieve sorriso sembrava una smorfia di scherno.

Poco distante, Luca si godeva l’aria salmastra con le braccia aperte, il vento che gli spettinava i capelli. «Nulla può fermarmi,» pensava, con un entusiasmo febbrile che gli bruciava nelle vene. L’invito alla festa in barca per lui non era solo una serata con amici, ma la conferma che Erica lo avesse invitato perché le piaceva. Il mare, agitato e imprevedibile, non gli incuteva alcun timore. Salì sulla barca con passo sicuro, ignorando le previsioni che annunciavano un temporale imminente. 

E poi c’era il dottor Ferri, il bibliotecario del paese, che osservava tutto questo con la pazienza di chi conosce le trame della mente umana. 

Vedeva Marco affondare nel pessimismo, Sara imprigionata nella sua insicurezza e Luca lanciarsi inconsapevolmente verso una delusione. 

Sapeva che ciascuno di loro non stava realmente guardando il mondo, ma un riflesso alterato, uno specchio che deformava la realtà.

La sera arrivò con il fragore del temporale. 

La barca di Luca fu sorpresa dalle onde alte, e solo il pronto intervento della guardia costiera evitò il peggio. 

Sara, nel frattempo, aveva evitato un incontro con un vecchio amico perché convinta che l’avrebbe trovata goffa, perdendo l’occasione di una serata piacevole. 

Marco, senza nemmeno controllare le reti che lascio a Eric il socio, tornò a casa rassegnato, senza sapere che quella notte il mare gli aveva portato un’abbondanza che non si aspettava.

Il dottor Ferri si sedette sul muretto del porto, ascoltando il respiro del mare. 

Pensò a come la mente ogni tanto ci inganni, come le distorsioni costruiscano gabbie invisibili. 

Marco aveva ceduto al catastrofismo, Sara era prigioniera della lettura del pensiero, e Luca vittima di una minimizzazione del rischio.

Eppure, il mare era sempre stato lo stesso.

Forse, rifletté, il primo passo per essere liberi è riconoscere che ciò che vediamo non è la realtà, ma la nostra interpretazione di essa. 

Come il mare, la vita cambia di continuo, e la nostra capacità di navigarla dipende da quanto siamo disposti a vedere con occhi nuovi.


sabato 1 febbraio 2025

Studio di Psicologia: Riflessioni sulle Convinzioni Interne






In un caldo pomeriggio estivo, lo studio di Psicologia Leinì si presentava come un luogo di calma e serenità, illuminato da una luce morbida che filtrava attraverso l’ampia finestra. 

In quell'ambiente accogliente, pensato per favorire la consapevolezza e la crescita personale, Sara, una giovane donna che da tempo lottava con sentimenti di inadeguatezza e ansia, aveva deciso di intraprendere un percorso di riflessione interiore per comprendere meglio il modo in cui i suoi pensieri negativi si insinuavano nella quotidianità.

Durante la seduta, il dottor Trossello, formato adeguatamente per allenare la capacità di guidare il percorso di esplorazione interiore dei pazienti, invitò Sara a ripercorrere un episodio recente che aveva scatenato in lei un'intensa ondata di disagio. 

In quell'occasione, durante una riunione di gruppo all'università, un commento critico di un compagno aveva avuto l'effetto di innescare una serie di reazioni interne che Sara descrisse come improvvise e incontrollabili. Quell'esperienza, pur essendo accaduta in un contesto specifico, aveva lasciato un'impronta profonda nel suo modo di vedere se stessa e le proprie capacità.

Sara ricordava con precisione ogni dettaglio di quel momento: l'aria tesa nella stanza, il brusio sommesso dei compagni, e il suono quasi impercettibile di un commento che, per lei, aveva avuto un impatto devastante. 

In quell'istante, una serie di pensieri negativi si erano insinuati nella sua mente, emergendo in maniera automatica e senza preavviso. Questi pensieri, che sembravano sorgere come una reazione istintiva all'evento, le avevano fatto sentire improvvisamente inadeguata e incapace di contribuire in modo efficace alla discussione.

Il dottor Trossello, con la sua esperienza e la sua attenzione al dettaglio, invitò Sara a descrivere con cura non solo l'evento in sé, ma anche le sensazioni e le riflessioni che erano  seguite. 

In questo processo, la paziente si rese conto che quei pensieri negativi non erano frutto di una scelta cosciente, ma piuttosto di una reazione automatica che si attivava in risposta a situazioni percepite come minacciose.

Sara iniziò a riflettere su come, immediatamente dopo il commento, una voce interiore si era fatta sentire, suggerendo che lei non era all'altezza delle aspettative altrui e che avrebbe inevitabilmente fatto una brutta figura. Questa voce, così familiare eppure così destabilizzante, le faceva ripercorrere in tempo reale immagini di insuccesso e di rifiuto, distorcendo la realtà e amplificando la percezione di vulnerabilità.

Il dottor Trossello la guidò in un percorso di riflessione  accurata, chiedendole di scomporre quell'esperienza nei suoi elementi fondamentali. 

Sara si rese conto che, al di là del singolo commento critico, c'era una serie di pensieri automatici che si erano attivati: immagini di fallimento imminente, convinzioni di inadeguatezza e l'ansia che cresceva in maniera esponenziale. 

Questi pensieri, come fili invisibili, si intrecciavano tra loro, dando vita a un ciclo che sembrava confermare le sue paure, indipendentemente dalle prove contrarie che avrebbe potuto ricordare.

Attraverso una riflessione guidata, Sara esaminò ciascuno di questi pensieri, cercando di capire come e perché si formassero in risposta a un evento esterno. 

Notò che, in passato, in situazioni simili, aveva ricevuto anche feedback positivi e aveva partecipato attivamente, dimostrando competenza e sicurezza. Tuttavia, in quel preciso momento, il meccanismo dei pensieri negativi si era attivato in maniera automatica, offuscando ogni ricordo di successo.

Il dottor Trossello sottolineò l'importanza di riconoscere questi pensieri come eventi transitori, che si presentano come una reazione immediata a situazioni stressanti. La sua guida permise a Sara di capire che tali pensieri non erano necessariamente rappresentativi della sua realtà complessiva, ma piuttosto di una modalità abituale di interpretare gli eventi, un filtro negativo che distorceva la percezione del proprio valore e delle proprie capacità.

Dopo aver esplorato in modo approfondito l'origine e la natura dei pensieri negativi automatici, Sara si concentrò sull'analisi critica di questi pensieri. Il processo che il dottor Trossello aveva proposto consisteva nel mettere in discussione l'evidenza che supportava quelle convinzioni, confrontandola con esperienze passate in cui aveva dimostrato di essere capace e di aver ricevuto riconoscimenti per il suo impegno.

In questa fase, iniziò a notare una contraddizione interna: sebbene in quel preciso momento il pensiero di inadeguatezza fosse così forte da farle perdere la voce e la partecipazione, in altre occasioni aveva ottenuto risultati positivi e apprezzamenti dai compagni. Questa presa di consapevolezza fu fondamentale, poiché le permise di capire che il pensiero negativo, pur essendo reale e vissuto intensamente, era solo una parte della sua esperienza e non definiva la totalità della sua identità.

Sara, approfondendo l'esplorazione, cominciò a riformulare il significato che attribuiva all'evento. Invece di considerare il commento critico come una prova definitiva della sua incapacità, si rese conto che si trattava di un singolo episodio che, pur doloroso, non poteva cancellare una storia fatta anche di successi e riconoscimenti. Questa ridefinizione mentale rappresentò un passaggio cruciale nel percorso di cambiamento: riconoscere che ogni pensiero negativo, per quanto intenso, poteva essere analizzato, contestato e reinterpretato alla luce di un quadro più ampio e oggettivo della propria esperienza.

Per consolidare questa nuova consapevolezza, il dottor Trossello suggerì a Sara di tenere un libro di riflessione quotidiana. In questo diario, avrebbe annotato ogni episodio in cui emergessero pensieri negativi automatici, descrivendo in modo dettagliato l'evento scatenante, le sensazioni provate e le riflessioni successive. L'obiettivo era duplice: da un lato, sviluppare una maggiore consapevolezza di quei momenti in cui la mente si orientava verso una visione distorta della realtà; dall'altro, imparare a osservare e a riformulare quei pensieri, evidenziando le contraddizioni tra le percezioni negative e le esperienze positive del passato.

Sara accolsel'idea, riconoscendo che la scrittura potesse diventare un prezioso alleato nel processo di trasformazione interiore. L'atto di mettere per iscritto le proprie emozioni e riflessioni avrebbe rappresentato un primo passo verso la consapevolezza continua, una pratica quotidiana che avrebbe rafforzato la sua capacità di guardare alle proprie reazioni con uno sguardo critico ma compassionevole.

Alla fine della seduta, mentre il calare del sole colorava di tonalità dorate le pareti dello studio, Sara lasciò tornò verso casa con un senso di rinnovata fiducia. Aveva imparato a riconoscere e a comprendere in profondità i meccanismi dei suoi pensieri, scoprendo che, sebbene possano insorgere con forza in momenti di stress, essi non rappresentano la totalità della sua esperienza.

Il percorso intrapreso quel giorno le aveva offerto strumenti concreti per osservare e riformulare quei pensieri, trasformandoli da elementi di debolezza in opportunità di crescita personale. Comprendere che un singolo episodio non definisce il proprio valore, e che ogni reazione negativa può essere messa in discussione alla luce di esperienze positive, le aveva permesso di immaginare una nuova visione di sé, più equilibrata e resiliente.

Il dottor Trossello aveva mostrato a Sara come il lavoro sulle convizioni, fatto di consapevolezza e di analisi critica, potesse aprire la strada a una trasformazione. 

Lo studio di Psicologia, con la sua atmosfera serena e la professionalità attenta a ogni dettaglio, rappresentava non solo un luogo di intervento, ma un vero e proprio laboratorio di benessere, dove ogni persona poteva scoprire il potere di cambiare il proprio modo di interpretare la realtà.

Per chiunque si trovi a vivere momenti di ansia e insicurezza, l'esperienza di Sara testimonia che è possibile intraprendere un percorso di riflessione e di ristrutturazione interiore, in cui i pensieri negativi non sono nemici da combattere, ma segnali da interpretare e trasformare. Con impegno, consapevolezza e l'aiuto di professionisti dedicati, ogni passo compiuto verso una maggiore comprensione di sé può rappresentare l'inizio di una vita più serena e appagante.


domenica 5 gennaio 2025

Panico in montagna




Giulia raggiunse Sestriere in un pomeriggio gelido di gennaio. L’aria limpida e pungente le arrossava le guance mentre parcheggiava l’auto nella piazza principale del paese. Le cime delle montagne brillavano sotto il sole invernale, e un sottile strato di neve fresca ricopriva i tetti delle case come una coperta morbida. Si avviò con passo stanco verso il suo appartamento, un piccolo bilocale al terzo piano di un edificio moderno vicino alle piste.

Entrando, fu colpita dal calore accogliente della stanza. Le pareti erano di un bianco brillante, i mobili in legno chiaro e le finestre panoramiche offrivano una vista spettacolare sui pendii innevati. Lasciò cadere la valigia accanto al divano e si avvicinò alla finestra. Osservò le piste, dove sciatori esperti sfrecciavano agilmente e principianti esitanti si muovevano a tentoni. In lontananza, un piccolo rifugio di legno si distingueva tra gli alberi, il fumo del camino che si alzava lento verso il cielo terso.

Ma non era lì per sciare o godersi il panorama. Era fuggita da Torino per cercare un po’ di pace, sperando che la montagna potesse lenire quel peso opprimente che la soffocava da mesi. Gli attacchi di panico erano iniziati all’improvviso, come fulmini a ciel sereno. Ricordava perfettamente il primo: una sera d’estate, mentre era in un ristorante con amici, il cuore aveva iniziato a batterle forte, un senso di vertigine l’aveva travolta, e un terrore inspiegabile l’aveva paralizzata. Pensava di avere un infarto. Il pronto soccorso le aveva confermato che fisicamente era sana, ma da allora gli attacchi si erano ripetuti, sempre più frequenti e devastanti.

Quella notte, nella quiete del suo appartamento di montagna, il panico non tardò a farsi sentire. Si svegliò di soprassalto, il cuore che martellava nel petto, il respiro corto, le mani sudate. Il mondo sembrava restringersi, come se le pareti stessero per schiacciarla. Sentiva il peso del terrore che cresceva, e l’idea di morire lì, da sola, si fece strada nella sua mente. Cercò di calmarsi, ma più provava a respirare profondamente, più il respiro sembrava sfuggirle. Dopo interminabili minuti, il corpo si calmò, ma la mente rimase intrappolata nel ricordo dell’episodio, spaventata dall’idea che potesse accadere di nuovo.

La mattina seguente, con gli occhi gonfi per la stanchezza, decise di uscire per schiarirsi le idee. Camminò lungo il corso principale di Sestriere, passando davanti ai negozi di articoli sportivi e alle caffetterie che servivano cioccolate calde e bombardini. Arrivò infine al limitare del bosco, dove una panchina di legno era posizionata sotto un grande pino. Su quella panchina sedeva un uomo anziano, avvolto in un cappotto pesante e con un bastone appoggiato accanto.

«Bella mattina, vero?» disse l’uomo, alzando lo sguardo dal libro che stava leggendo.

Giulia esitò, poi rispose con un sorriso debole. «Sì, davvero bella.»

L’uomo chiuse il libro e lo posò sulle ginocchia. «Io sono Carlo. Vieni qui spesso?»

«No, è la prima volta,» disse Giulia, sedendosi accanto a lui. Sentiva il bisogno di parlare, di sfogarsi, e quell’uomo dallo sguardo gentile sembrava un buon ascoltatore. «Sono qui per cercare un po’ di pace. Da mesi soffro di attacchi di panico.»

Carlo la osservò con attenzione, senza fretta. «Ti capisco. Anche se può sembrare spaventoso, il panico non è pericoloso. È solo il tuo corpo che reagisce a qualcosa che interpreta come una minaccia.»

Giulia sospirò. «Lo so, me l’ha detto anche il mio psicologo, ma quando succede, sembra di morire davvero.»

Carlo annuì. «È proprio questa la trappola. Il panico nasce da una serie di interpretazioni catastrofiche. Ad esempio, senti il cuore battere più forte e pensi subito: Sto avendo un infarto. Ma in realtà, il tuo corpo sta solo reagendo a un pensiero, non a un pericolo reale. Questo innesca un circolo vizioso: più ti spaventi, più i sintomi aumentano.»

Le parole di Carlo avevano un tono rassicurante, come se spiegassero qualcosa di familiare. «Come si interrompe questo circolo?» chiese Giulia.

Carlo sorrise. «Accettando il panico, non cercando di combatterlo. Più lo combatti, più lui si rafforza. Devi imparare a osservarlo senza giudizio, come se stessi guardando una tempesta dalla finestra, sapendo che prima o poi passerà.»

Nei giorni successivi, Giulia e Carlo si incontrarono spesso. Camminavano insieme lungo i sentieri innevati, e Carlo continuava a insegnarle tecniche e strategie per affrontare il panico. «Il respiro è il tuo migliore alleato,» le disse un pomeriggio. «Quando senti arrivare il panico, prova questa tecnica: inspira lentamente contando fino a quattro, trattieni il respiro per due secondi, poi espira lentamente contando fino a otto. Questo manda al cervello il segnale che va tutto bene.»

Durante una delle loro passeggiate, Carlo le spiegò più in dettaglio il meccanismo del panico. «È come un falso allarme antincendio. Il tuo sistema nervoso autonomo si attiva per proteggerti da un pericolo che non esiste. Il cuore batte più forte per prepararti a scappare o a combattere, il respiro si fa rapido per fornire ossigeno ai muscoli, e il sangue viene dirottato dai visceri ai muscoli, causando quella sensazione di stomaco vuoto o nausea. Sono reazioni naturali, ma il problema è che il tuo cervello le interpreta come segni di un disastro imminente.»

Giulia iniziò a mettere in pratica gli insegnamenti di Carlo. Una sera, mentre stava leggendo sul divano, sentì il panico avvicinarsi. Il cuore iniziò a battere più forte, il respiro si fece affannoso, ma questa volta non fuggì. Chiuse gli occhi, iniziò a respirare lentamente e ripeté a se stessa: «Non c’è pericolo, passerà.» Sentì il terrore crescere, poi, come un’onda che si ritira, diminuire gradualmente. Quando tutto finì, si sentì esausta ma sollevata.

Il giorno della partenza, Giulia si fermò un’ultima volta sulla panchina sotto il pino. Carlo era lì, con il suo libro in mano. «Grazie,» disse lei. «Non ho più paura del panico. So che può tornare, ma ora so anche che non mi farà del male.»

Carlo annuì, con un sorriso leggero. «Ricorda: il panico è solo un’ombra. E tu hai imparato a camminare nella luce.»

Giulia tornò a Torino con una nuova consapevolezza. Aveva scoperto che non era il panico a tenerla prigioniera, ma la sua paura di affrontarlo. Ogni volta che chiudeva gli occhi e ascoltava il proprio respiro, poteva sentire il silenzio della montagna e ritrovare quella calma che aveva imparato a conoscere al Sestriere.

La collina di Torino

Torino.  Agosto.  L’aria era immobile, pesante, densa di umidità. Il sole si rifletteva sui palazzi del centro come un bagliore dorato, fa...