Torino.
Agosto.
L’aria era immobile, pesante, densa di umidità. Il sole si rifletteva sui palazzi del centro come un bagliore dorato, facendo sembrare ogni superficie un fuoco liquido. Corso San Maurizio, che portava verso il precollina, era quasi deserto. Il traffico era ridotto all’essenziale: qualche autobus vuoto, qualche bicicletta solitaria, i pochi torinesi rimasti in città che si muovevano con l’andatura lenta e svogliata di chi sopravvive a una fornace a cielo aperto.
Sara camminava veloce, evitando le zone di sole e cercando con lo sguardo piccoli rifugi d’ombra tra i palazzi. Era venerdì sera, e mentre attraversava il Lungo Po, il rumore ovattato delle auto che scivolavano sul manto stradale e il brusio sommesso delle conversazioni nei dehors dei bar si mescolavano in un sottofondo che riempiva la serata estiva.
L’aria era calda, ma a tratti una brezza leggera risaliva dal fiume, portando con sé l’odore dell’acqua e del cemento surriscaldato. Il sole, ormai basso all’orizzonte, proiettava lunghe ombre sui marciapiedi, e Sara si muoveva agilmente tra i giochi di luce e ombra, con il passo sicuro di chi conosce ogni angolo della città.
Era molto carina, con un volto dai lineamenti delicati e occhi azzurri identici a quelli di sua madre, chiari e vivaci, capaci di catturare ogni dettaglio attorno a lei. Il suo fisico, invece, lo aveva preso da suo padre, alta e slanciata, con movimenti sempre fluidi e naturali.
Assomigliava molto anche a suo fratello minore, che aveva quindici anni e viveva ancora con i loro genitori. Era molto legata a lui.
Vestiva con una semplicità che non era mai banale: un jeans dal taglio perfetto, morbido e leggermente scolorito, abbinato con naturalezza a una maglia della Pepe Jeans, comoda, fresca, dal tessuto sottile che accarezzava la pelle senza aderire troppo. Ai piedi, un paio di Nike bianche che avevano visto giorni migliori. Un tempo immacolate, ora erano segnate dal tempo e dalle strade percorse, un bianco che era stato bianco, ma che continuava a portare con sé un fascino vissuto e autentico.
Ogni suo passo, ogni suo movimento, sembrava perfettamente in sintonia con l’ambiente attorno a lei, come se appartenesse a quella città, alle sue vie, ai suoi tramonti dorati.
Palazzo Nuovo, con le sue grandi vetrate annerite dal tempo e il cortile interno pieno di fogli stropicciati abbandonati sulle panchine, l’aveva accolta tutto il giorno tra i suoi corridoi asfissianti, le lezioni letargiche di fine sessione e la biblioteca dove aveva passato ore a studiare. Ma ora voleva solo tornare nella sua stanza.
Il collegio si trovava in collina, nella parte più elegante e silenziosa del precollina torinese. Era un edificio antico, costruito in pietra chiara e circondato da giardini con siepi perfettamente curate. Le stanze erano fresche, con soffitti alti e finestre che davano sulla città. Di notte, la vista era spettacolare: le luci di Torino si stendevano come una costellazione sotto di lei, e il Po sembrava una lama d’argento che tagliava la città in due.
Prese il bus 78.
Salì e si accorse subito di una cosa: tutti, nessuno escluso, erano incollati ai loro schermi.
Un ragazzo con una camicia di lino guardava un video senza cuffie, lo sguardo spento. Una donna sulla quarantina digitava velocemente un messaggio, le unghie che tamburellavano sul vetro del telefono. Accanto a lei, un uomo con la testa china stava leggendo un articolo, mentre il riflesso azzurrognolo del display gli scoloriva il viso.
Sara si sedette e si guardò intorno.
Nessuno parlava.
Nessuno si guardava.
Il bus procedeva lungo corso Moncalieri, scivolando tra le luci calde dei lampioni e le ombre proiettate dagli alberi che costeggiavano il fiume. Sara, seduta accanto al finestrino, osservava il Po scorrere placido accanto a loro, le sue acque appena increspate dal vento della sera. Torino aveva un modo tutto suo di trasformarsi al tramonto, le strade assumevano una calma quasi irreale, una quiete austera che si rifletteva nelle architetture imponenti della città.
Quando il bus arrivò all’altezza del Ponte Isabella, virò a sinistra, abbandonando la strada che costeggiava il fiume per imboccare corso Fiume. Qui, la città sembrava cambiare volto. Le palazzine lasciavano spazio a ville eleganti e silenziose, immerse nel verde, con giardini nascosti dietro cancelli in ferro battuto. Le facciate delle case erano austere, alcune di un bianco luminoso che sembrava assorbire gli ultimi bagliori del giorno, altre più scure, di mattoni rossi o pietra consumata dal tempo, con finestre alte e strette che nascondevano interni antichi e insondabili.
Sara le guardava scorrere una dopo l’altra, incantata e al tempo stesso inquieta. C’era qualcosa di ipnotico in quelle ville torinesi, con i loro cortili nascosti, le scalinate in pietra consumata, le statue silenziose che sorvegliavano gli ingressi.
Quando il bus giunse in piazza Crimea, la rotonda apparve immersa in un’atmosfera quasi sospesa. I locali attorno erano chiusi per ferie, le saracinesche abbassate conferivano alla piazza un’aria più solitaria del solito. Il parco della Crimea, accanto a loro, si distendeva come una macchia d’ombra, i suoi alberi si stagliavano contro il cielo che ormai si tingeva di blu profondo.
Fu in quel momento che lo sguardo di Sara si fermò su una villa in particolare, un edificio maestoso, leggermente nascosto dietro un fitto muro di vegetazione. Aveva finestre altissime, un ingresso sovrastato da colonne eleganti e un alone di mistero che la rendeva diversa dalle altre.
Non poteva fare a meno di pensare a “Profondo Rosso”.
La scena della villa del film di Dario Argento le tornò in mente con incredibile nitidezza: l’architettura imponente, il mistero che si annidava dietro quelle finestre, l’atmosfera carica di tensione e suggestione.
Sara distolse lo sguardo, un brivido le attraversò la schiena. Forse era solo la suggestione, o forse era quell’aria di Torino, così carica di storie non raccontate. Il bus riprese a salire, lasciandosi alle spalle la piazza e dirigendosi verso la collina, verso il collegio.
Eppure, tutti erano chiusi nei loro schermi, come se il mondo reale fosse diventato superfluo.
“Possibile che nessuno parli più con chi ha accanto?” pensò Sara.
Un tempo, il tragitto in autobus era fatto di piccole interazioni: uno sguardo scambiato con uno sconosciuto, una conversazione rubata tra due amici, il brusio dei discorsi che riempiva l’aria. Ora, invece, il silenzio era assoluto.
Un silenzio innaturale.
Arrivata alla sua fermata, scese e si incamminò verso il collegio. Le scale in pietra erano fresche sotto i sandali, il profumo dei pini e delle magnolie era l’unico sollievo dalla calura soffocante.
Il collegio era imponente, una struttura del XIX secolo con alte finestre, cancelli in ferro battuto e interni di legno scuro. Sara salì le scale di marmo, sentendo il suono ovattato dei suoi passi riecheggiare nel corridoio.
Entrò nella sua stanza e si tolse le scarpe. La finestra era aperta, e la città si stendeva davanti a lei, illuminata come una mappa vivente.
Si sedette sul letto e tirò fuori il libro che aveva comprato in libreria qualche giorno prima. Ma prima di aprirlo, prese il telefono.
Lo schermo si illuminò immediatamente.
Notifiche. Messaggi. Email. Un flusso continuo di informazioni che la tirava dentro, che le impediva di fare qualsiasi altra cosa. Lo sguardo le scivolò via dal libro e finì dentro quella prigione di vetro e pixel.
Quanto tempo passò?
Quando si riscosse, erano passati quaranta minuti. Quaranta minuti rubati.
Lo lasciò cadere sul letto, quasi disgustata. “Com’è possibile che ogni volta succeda la stessa cosa?”
Si alzò e si versò un bicchiere d’acqua. Domani avrebbe studiato tutto il giorno. Solo un aperitivo con qualche amico la sera, poi di nuovo sui libri.
Ma la sua mente continuava a tornare su quell’immagine: il bus pieno di persone, tutte intrappolate dentro uno schermo.
Era come se la città avesse smesso di esistere, come se nessuno fosse più capace di guardare oltre.
E lei? Ne era davvero immune?
Spense la luce e si infilò sotto le lenzuola. Il vento leggero entrava dalla finestra, portando con sé l’odore della collina.
Ma la sua mente non smetteva di lavorare.
Qualcosa non andava. E lei aveva la sensazione che fosse solo l’inizio.