sabato 28 giugno 2025

ABC







Quando si comincia un percorso di terapia psicologica, uno dei primi obiettivi è iniziare a comprendersi meglio. Ma cosa significa davvero “capire cosa succede dentro di sé”? Per chi segue un approccio cognitivo-comportamentale, questo non è solo un obiettivo vago: ha una struttura precisa, un metodo che insegna a osservare ciò che accade nella propria mente e nel proprio comportamento. Questo metodo si chiama modello A–B–C, ed è uno degli strumenti più importanti per chi desidera fare un cambiamento autentico e duraturo.





Cos’è il modello A–B–C?



Il modello A–B–C è una tecnica che aiuta a scomporre ciò che viviamo, in modo da riconoscerne la struttura interna. Le tre lettere stanno per:


  • A – Evento Attivante: ciò che succede fuori di noi (un litigio, una critica, un imprevisto, un messaggio non ricevuto…)
  • B – Beliefs (credenze): il modo in cui interpretiamo quell’evento. Sono i pensieri, i significati, le convinzioni che si attivano dentro di noi.
  • C – Conseguenze: le emozioni che proviamo, le reazioni del corpo, i comportamenti che mettiamo in atto.



Un esempio:

A: Una collega passa e non mi saluta.

B: “Ce l’ha con me, non mi sopporta. Forse ho fatto qualcosa di sbagliato.”

C: Mi sento in ansia, mi chiudo in me stesso, evito di parlarle.





Perché è così importante?



Perché ci fa capire che non è l’evento esterno a causare direttamente ciò che proviamo, ma il modo in cui lo interpretiamo.

In altre parole, tra quello che accade e come ci sentiamo ci siamo noi, con i nostri pensieri, schemi, storie passate e aspettative.


Questa consapevolezza è una svolta: ci restituisce potere.

Se a determinare come stiamo non è solo ciò che accade, ma ciò che pensiamo di ciò che accade, allora possiamo imparare a osservarci, metterci in discussione e, quando serve, cambiare.





All’inizio di un percorso: perché si parte da qui?



All’inizio di una terapia psicologica, il modello A–B–C è la mappa fondamentale.

Prima ancora di cambiare abitudini, emozioni o stati d’animo, è essenziale imparare a distinguere questi tre elementi:


  • Cosa accade intorno a me (e dentro di me)?
  • Cosa mi racconto, cosa penso?
  • Come mi sento e come reagisco?



Molte persone arrivano in terapia psicologica con la sensazione che “le cose accadano e basta”, o che “le emozioni siano troppo forti per essere gestite”. Il modello A–B–C non banalizza questa esperienza, ma la traduce in un linguaggio più chiaro, analizzabile e gestibile.





Una tecnica per conoscersi, non per giudicarsi



Il modello A–B–C non serve a dire “hai sbagliato a pensare così”. Al contrario, serve a guardare i propri pensieri come ipotesi, come prodotti della propria storia personale, delle esperienze vissute, delle paure e dei bisogni.


Spesso si scopre che alcune reazioni emotive hanno radici in pensieri automatici ripetitivi, che si attivano quasi senza accorgersene. Prendere confidenza con questi meccanismi significa vederli, nominarli e imparare a non farsene travolgere.





Un passo alla volta, dentro di sé



Imparare a usare l’A–B–C è come imparare a leggere dentro di sé in modo nuovo. Non è una tecnica da applicare una volta sola, ma uno strumento da allenare nel tempo, in vari momenti della propria giornata.


Con il tempo, molte persone iniziano a riconoscere le proprie credenze più profonde, spesso automatiche e inconsapevoli. Ed è lì che il lavoro si fa davvero trasformativo: quando si riesce a vedere che non si è sbagliati, ma si è stati per molto tempo prigionieri di pensieri rigidi o distorti.





In conclusione



La terapia psicologica basata sul modello cognitivo-comportamentale non inizia con consigli o soluzioni pronte. Inizia con una lente di osservazione. Il modello A–B–C è quella lente: semplice da comprendere, ma capace di aprire mondi interiori complessi.


Comprendere come funziona la relazione tra eventi, pensieri ed emozioni è il primo vero passo per poter scegliere, trasformare e vivere con maggiore consapevolezza.


E per molti, è anche il primo passo per sentirsi davvero liberi, dentro.


sabato 7 giugno 2025

Pensieri intrusivi






Oggi, durante l’incontro, con Sara abbiamo parlato di pensieri intrusivi. 

Li descrive come “ondate improvvise”, immagini o frasi che sembrano comparire senza preavviso, e che spesso la colgono nel mezzo di attività quotidiane. 

Non sono pensieri che vuole, anzi, spesso le sembrano lontani dalla persona che sente di essere. Ma proprio per questo la spaventano. “E se volessero dire qualcosa di brutto su di me?”, mi chiede.

Mi prendo qualche istante e poi le dico:

«Hai fatto benissimo a raccontarmelo così. Il fatto che tu ti senta a disagio rispetto a quei pensieri, che tu li riconosca come disturbanti e non voluti, è un elemento fondamentale. Significa che non definiscono chi sei, ma che fanno parte di un’attività mentale che, in certi momenti, può diventare particolarmente invadente.»

Sara annuisce. 

Le chiedo se ha mai provato a rispondere a questi pensieri. «Sì», mi dice, «ma spesso non funziona. È come se li alimentassi, invece di farli andare via.»

Qui introduco un primo passaggio chiave:

«Spesso proviamo a cacciare via i pensieri intrusivi come se fossero ospiti indesiderati. Ma più li spingiamo fuori, più sembrano voler tornare. C’è un’immagine che utilizzo spesso: è come cercare di appiattire l’acqua di un lago spingendo le mani sulla superficie. Non otteniamo calma, ma onde. In terapia ci psicologica, il lavoro che facciamo non è quello di eliminare questi pensieri, ma di cambiare la relazione che abbiamo con loro.»

Le propongo un piccolo esercizio: chiudere gli occhi e immaginare di vedere quei pensieri come delle nuvole nel cielo. Nuvole che passano. Alcune più grigie, altre veloci, altre lente. Non dobbiamo rincorrerle né giudicarle. Possiamo osservarle.

Dopo qualche minuto, Sara riapre gli occhi.

«È difficile, ma è diverso. Non li combattevo.»

Proseguo:

«Quello che stai facendo, in questo momento, è un piccolo passo verso la flessibilità psicologica. Non stai più reagendo automaticamente. Stai osservando. Questo è un punto fondamentale della terapia: riconoscere che i pensieri non sono comandi, né verità assolute. Sono eventi mentali. Possono esserci, ma non devono governare ciò che scegli di fare.»

Le chiedo:

«Se questi pensieri non ti trattenessero, se li potessi accogliere senza paura, cosa faresti di importante questa settimana?»

Lei ci pensa un momento, poi risponde:

«Andrei a quella cena dove ho paura che mi vengano in mente proprio lì.»

«E se succedesse?» chiedo.

«Potrei ricordarmi che sono pensieri, non segnali di pericolo. E potrei restare.»

In quel momento noto qualcosa cambiare nel tono della voce. Più determinazione, più contatto con ciò che davvero conta. La direzione è questa: non fuggire da ciò che fa paura, ma imparare a stare, un po’ alla volta, in presenza del disagio. Perché solo così si ricomincia a vivere con più libertà.


Una dimensione nascosta

  Siamo portati a credere di sapere chi siamo: pensiamo di conoscere le nostre reazioni, le nostre paure e ciò che ci motiva. Eppure, quant...